Il 31 marzo del 1996 moriva a Roma il poeta Dario Bellezza. Tuttora si evince una sorta di ‘scandalo’ editoriale, che pone una specie di esclusivo silenzio e d’ignoranza su uno dei cantori più dibattuti del Novecento: la mancata ristampa dei suoi libri di prosa e saggistica; particolarmente degli indispensabili “Morte di Pasolini” e “Il poeta assassinato”
Il 31 marzo del 1996 moriva allo Spallanzani di Roma, a causa dell’Aids, Dario Bellezza, poeta, scrittore, drammaturgo, traduttore e curatore editoriale. Scoperto e lanciato da Pier Paolo Pasolini, che lo definì “Il miglior poeta della nuova generazione”, Bellezza s’era già fatto notare dai lettori nel 1970 con la pubblicazione de “l’Innocenza”, romanzo breve col quale esordì e di cui Alberto Moravia scrisse la prefazione: storia di un’adolescenza tormentata con precise connotazioni autobiografiche. Seguirono poi i romanzi “Lettere da Sodoma” e “Il carnefice”, ispirati anch’essi alle proprie esperienze personali.
Nel 1976 vinse il Premio Viareggio col libro di poesie “Morte segreta” (versi ispirati a temi autobiografici, fra i quali spicca l’amore omosessuale, vissuto con un sofferto atteggiamento maledettista, nella ricerca ossessiva del disgustoso fra drogati e prostituti, ma che a volte risentono pure dell’influenza dei poeti simbolisti e dell’opera di Sandro Penna). Seguono poi “Angelo”, deposizione turbata all’immenso amore della sua vita: la cultura letteraria; e ancora, “Turbamento”, “L’amore felice” (con uno scritto di Anna Maria Ortese, una storia d’amore e di odio, di rapina e beffa, che sembra ripetere i fasti e i segreti di una iniziazione barbarica, anche se, in definitiva, fu scritto come lunga lettera d’addio alla sua musa Elsa Morante) e “Nozze col diavolo”. Per Garzanti tradusse l’intera opera di Arthur Rimbaud, suo poeta di riferimento anzitutto negli anni della gioventù. Nel 1986 fu protagonista di un celebre conflitto con Aldo Busi durante una puntata di Mixer Cultura. Durante lo scontro Bellezza diede a Busi della “puttana che va in giro a vendere i suoi libri”, accusandolo di sfruttare l’omosessualità a fini di vendita. Busi rispose a Bellezza che la sua “acrimonia” nasceva dall’essere stato “esautorato dal panorama della letteratura italiana”. Ovviamente, per puro distacco e incompetenza, invidia e irritazione, come di solito capita qui in Italia (in altre nazioni non sarebbe mai accaduto), tutte le sue opere di prosa e di saggistica non vengono ristampate da anni, ma sebbene l’industria libraria locale lo snobbi e ne costringa l’opera ad una sorta di oblio, i correnti interessi sul lirico romano sono evidenti: Marco Beltrame, appena laureatosi con una tesi su di lui titolata “Amore funesto. Il teatro di Dario Bellezza”, ne ha ricostruito l’intera teatrografia, da “Apologia di reato” del 1970 alle ultime prove drammaturgiche degli anni Novanta. Ha raccolto i testi editi, recuperato quelli inediti, sia manoscritti che dattiloscritti, più gli interventi critici dello stesso Bellezza sul teatro. Ha infine ripreso presentazioni e recensioni degli spettacoli, ricostruendone le collaborazioni con i registi che lo hanno messo in scena (Antonio Calenda, Simone Carella, Renato Giordano, Antonio Marfella, Nuccio Siano, Memé Perlini, Federico Wardal), per poi concludere il suo impegno in una serie di incontri con critici e poeti della generazione del poeta come Elio Pecora e della scrittrice Dacia Maraini.
Lo scrittore e poeta Massimiliano Palmese e l’attrice regista Carmen Giardina realizzano sulla sua figura un documentario “Bellezza, addio”, film prodotto da Zivago Film con Luce-Cinecittà (il sunto: a metà degli anni Novanta uno scoop giornalistico rivelava all’Italia che il poeta Dario Bellezza – amico di Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante – era malato di AIDS: la notizia segnò l’inizio del suo calvario. Nel cortometraggio amici, poeti e critici letterari raccontano il primo scrittore dichiaratamente omosessuale della letteratura italiana, tra i protagonisti di una stagione culturale di grande splendore, forse irripetibile. Lo hanno definito ‘il nostro poeta maledetto’; “Ma benedetto dalle Muse”, rispondeva lui, col suo spirito polemico e irriverente. Nel documentario, tra gli altri, partecipano Barbara Alberti, Ninetto Davoli, Elio Pecora).
Se nel 2015, a cura del valente poeta Roberto Deidier, è uscita in Oscar Mondadori l’opera omnia poetica, “Tutte le poesie” (pubblicazione approfondita e particolareggiata sul suo impegno poetico), sui due saggi fondamentali che Bellezza scrisse su Pasolini vi è la totale indifferenza; sono: “Morte di Pasolini” (Mondadori 1981, poi in Oscar, nel 1995) e “Il poeta assassinato” (Marsilio, 1996). Ovviamente non si rintracciano le ragioni di simile ‘scandalo’ editoriale, che pone non solo una sorta di esclusivo silenzio e d’ignoranza su uno tra gli intellettuali più discussi del Novecento – del resto già concretizzata nel quarantenne della morte di Pasolini: anche in quella occasione i due testi di Bellezza non furono ristampati – ma che non consente una ampia riflessione su Pasolini per mano di chi lo ha frequentato molto bene: Dario Bellezza. Con uno scritto in quarta di copertina in cui Alberto Moravia spiegava come “Bellezza ha risolto il problema in chiave esistenziale, intendendo con questo che ha cercato di rivivere la tragedia di Pasolini come autobiografia, cioè, dato che aveva in comune con Pasolini le stesse scelte erotiche, come dramma omosessuale. In questo modo casualità e fatalità riescono a coesistere nella sua analisi della morte dell’amico senza contraddirsi né escludersi a vicenda. Ne è venuto fuori un ritratto del poeta assassinato nel momento dell’assassinio, al tempo stesso esatto nei particolari ed emblematico nei significati”, Bellezza, in “Morte di Pasolini” lascia volentieri ad altri le riedificazioni poliziesche dei fatti per individuare, invece, nelle opere di Pasolini, le cause di una morte disumana. Infatti, attraverso la poesia del suo amico, Bellezza ripercorre le tappe sintomatiche della sua esistenza, dalla giovinezza in Friuli alla fuga a Roma, dall’ubriachezza della notorietà all’angoscia degli ultimi anni, ricercando le origini di un tormento che fu autocompiacimento sfrenato, impazienza di scandalo, erotismo bellicoso e furfante in cui, quasi una forma di espiazione, Pasolini si autodistrugge. La ricostruzione della morte dell’amico Bellezza la indaga su “Il poeta assassinato”, ricostruendone la verità sulla tragica vicenda contro le menzogne o le mezze verità che seguirono il fatto delittuoso.
Bellezza torna sulla tragedia Pasolini quando è certo che non ne avrà più tempo a causa del suo AIDS: “Se non lo faccio adesso, ora che la morte mi minaccia, non potrei più scriverla”. Così, in una narrazione fluente ma colma di refusi, sgorgano le vicende nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, dove gli accusatori non sono solo i suoi ‘ragazzi di vita’ ma i politici, gli intellettuali, la chiesa, la società civile, in un saggio autobiografico dove si ripercorrono le tappe di una formazione sì poetica, ma pure morale e politica, contro una società che sembra, giorno dopo giorno, smarrire una ‘religiosità dell’uomo’ cara ad un altro illustre drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese, Rabindranath Tagore.
Nel mio libro “Il male di Dario Bellezza” (ultima edizione aggiornata Castelvecchi 2016; nel saggio c’è una lunga intervista a Bellezza, nella quale, oltre a parlare di sé, dei suoi libri e della sua quotidianità, egli racconta particolari inediti della vita e della scomparsa funesta di Pasolini), quando mi proferì del suo “Il poeta assassinato” Dario si espresse cosi: “Ho scritto una nuova prosa riparatrice per il semplice motivo che non mi sono mai rassegnato alla sua tragica fine. L’ho scritta anche perché ora che la morte mi è addosso, forse non ne avrei avuto più le forze. Ma ciò non vuol dire rinnegare il mio ‘Morte di Pasolini’, un libro ancora valido per la passione con cui l’ho redatto e per il dolore di una morte inaccettabile. Resta attuale la ricostruzione del suo ultimo giorno di vita e l’effetto pedagogico che ebbe. Resterà per sempre la riflessione su un poeta che ha non solo una idea della morte, ma della sua morte prefigurata, come testimonia la sua ultima poesia. Ancora oggi, per me, il tempo del lutto non si è concluso. Nello scrivere questo nuovo libro su di lui, provo un dolore così intenso che mi fa star male”, per poi proseguire: “Pasolini e il cinema? Secondo me lo ha affrontato perché sentiva esaurita la sua vena di scrittore, e credeva di non aver più nulla da dire: aveva scrutato con lucida tenacia nel mondo delle borgate, e si era impegnato con passione nella poesia civile, due facce della sua attività letteraria a cui aveva dato il meglio del suo talento, riuscendo a far emergere nella letteratura con nitidezza aspetti che prima di lui passavano a fatica attraverso il filtro degli schemi e delle convenzioni della letteratura. Ma Pier Paolo a un certo punto avvertì il desiderio di trovare nuove vie di espressione, e scelse per questo il cinema, che lo assorbì completamente. Tutta la produzione letteraria successiva al suo impegno cinematografico è di tipo polemico, e non arriva mai a una forma conclusa. Credo che il Pasolini migliore dopo gli anni Sessanta sia nel cinema, dove si perde qualunque traccia polemica. Altrimenti, in letteratura come nel giornalismo, la posizione di Pasolini era nota, profondamente ostile al mondo industriale, che avviava un nuovo ciclo storico opposto al precedente, quello contadino in cui Pier Paolo era cresciuto e si era formato. Divenne reazionario e giustificò questa scelta dicendo che si poteva benissimo essere reazionari e comunisti allo stesso tempo, se si intende conservare del passato ciò che il passato ha dato di meglio. Quando lo conobbi già abitavo per conto mio, e fu proprio lui a suggerirmi di correggergli i manoscritti per il cinema, di occuparmi della sua posta. Era prima del Sessantotto. Ero da poco uscito dal liceo, mi ero iscritto all’università, e già componevo le prime poesie. Avevo letto sia ‘Le ceneri di Gramsci’ che ‘La religione del mio tempo’: mi piacquero a tal punto da farmi restare ammutolito, da non riuscire a scrivere più. E poi ‘Poesia in forma di rosa’, che mi suscitava una partecipazione che aveva quasi del mistico. Ero completamente catturato da quella scrittura densa, problematica. La figura di Pasolini mi ispirava una specie di terrore, un sentimento mai scomparso del tutto: ecco perché non posso dire o scrivere nulla su di lui che non corrisponda a verità. Fin da allora io avvertivo tutta la sua grandezza e genialità, ma nello stesso tempo intuivo la tristezza per la sua condizione omosessuale. Ho sempre creduto che la sua intelligenza, per una nazione come la nostra, aveva del miracoloso. Adoravo il suo modo di buttare in faccia al mondo, ai borghesi, la sua omosessualità, mi attraeva questa sua impudente disinvoltura, tanto che anche io, da parte mia, desideravo avere il coraggio di gridare che ero un diverso, e imporlo al mondo. Poi, col tempo, non l’ho più amato come quando prima di conoscerlo. Con gli anni si è come insinuata, dentro di me, una forma di infedeltà al suo culto. Ma c’era un sentimento tra di noi molto forte; per questo, anche se non ho mai condiviso nulla delle sue convinzioni e profezie, siamo rimasti legati fino a quando s’è fatto ammazzare. Però, se prima ero convinto che lui, con tutto sé stesso, volesse andare incontro al suo destino, ora come ora non ne sono tanto sicuro. Io non so più dirti se per me fu un cattivo maestro di cui dovevo liberarmi; ovviamente come regista resta unico, immenso, pure se un gran narcisista, tant’è che si è sempre considerato una vittima predestinata di quel campo di concentramento che era la Democrazia Cristiana. Come scrittore? Non ha più alcun valore, almeno per me. Lo stesso ‘Petrolio’ mi appare senza contenuto, dalla forma discutibile, mentre anni fa – e lo ricordo bene – mi piacque molto. Mi estasiò: è un libro compiuto nella sua incompiutezza, un libro dove non c’è nulla di postumo, anche se si può analizzare la lettera finale indirizzata a Moravia come si trattasse di un testamento inconscio” e proseguendo nel suo amore/odio verso il poeta friulano si lascia andare a confessioni simili: “Pasolini non amava i giovani, non riusciva più a comunicare con loro. Restando cieco davanti a una realtà in mutamento, sentiva la morte che incalzava. Negli ultimi anni era troppo pieno di sé e non dava molto al prossimo. Viveva di sé stesso. Non era affatto buono. Altrimenti, se lo fosse stato, non avrebbe diretto ‘Salò’, un film denuncia che doveva inaugurare il nuovo periodo di castità; era intenzionato a divenire casto, ma con una crudeltà che aveva dell’indescrivibile. Quel film ne era solo l’inizio. Non si curava molto degli altri quando si trattava di sé. Ricordo che una volta eravamo al ristorante io, lui, Sandro Penna ed Elsa Morante. Adocchiò il cameriere, un bel giovanottone di vent’anni e, senza pensarci su, ci lasciò al tavolo per seguirlo. Vedemmo che dopo un po’ si diressero verso il bagno. Stette via una decina di minuti. Tornò; sedendosi al tavolo, si ripuliva ancora la bocca dallo sperma. Disse che aveva appena fatto l’amore. Ma la Morante lo apostrofò stizzita: ‘Amore? Ma quale amore? Avrai fatto un bocchino’. Ecco, Pasolini era anche questo. A me il fatto di per sé non fece alcuna impressione. Io lo conoscevo bene, e conoscevo bene le sue abitudini. Per andare con un ragazzo, ne doveva restare intrigato, il tipo doveva avere delle caratteristiche pasoliniane: insomma, doveva assomigliare a quei ragazzi di vita descritti con tanto realismo, a quegli accattoni sottoproletari che evidenziano sfacciatamente quel sacro gonfiore della patta che li rende assolutamente maschi. Ecco perché Pasolini amava soprattutto corpi proletari, perché in essi vedeva la vera mascolinità. I suoi amanti di poche ore erano sfacciatamente dei superficiali, veri sfrontati nella loro indomita mascalzoneria ladrona. Allora perché negare quel tormento abissale così profondo nei suoi ultimi versi, una vera angoscia suprema che lo spingeva verso atteggiamenti sessuali destabilizzanti? Era un modo per fare sesso che di per sé gli precludeva qualunque risvolto sentimentale, qualunque forma di amore. Ah!, l’amore: lui lo provò solo per sua madre, venerata manco fosse una madonna: era una passione viscerale, a conferma di un edipismo irrisolto. Susanna era l’allegoria vivente dell’attaccamento di Pier Paolo sia alla vita che alla poesia, coltivata come un’eredità di Rimbaud (chi dimentica ch’egli era poeta, non capisce nulla di Pasolini perché lui era poeta anche nei minimi atti della quotidianità). Alla madre fece interpretare la parte della Madonna nel suo Vangelo secondo Matteo, che è come una testimonianza della coincidenza della sua vita sentimentale con l’attaccamento alla madre. Chiunque rifletta sulla sua vita, mette sempre in evidenza, come gran parte dei critici hanno fatto finora, questo legame, questo grande amore morboso che rasentava un sentimento incestuoso, un amore di figlio che non può vivere senza la madre; e non è un caso che lui con la madre è rimasto fino alla sua morte. Forse anche per questo Pasolini non si è mai emancipato, come invece capita a chi se ne va di casa e inizia a vivere una vita tutta sua, soprattutto se omosessuale. Come sostenni a un convegno dei primi anni Ottanta in cui mi si chiedeva di parlare di Pasolini, ho invece il sospetto che egli fosse più legato al padre, perché si trattava di una figura più disorientante, più problematica della madre: un fascista che fu fatto prigioniero e a cui toccò di assistere al crollo di tutti i suoi ideali, un uomo che aveva pesato con la sua aggressività, se pur involontaria, sulla famiglia, e del quale la moglie non era affatto innamorata; però gli obbediva, dando così occasione, in questa specie di arcaica religiosità contadina, a una serie di traumatiche invidie e gelosie. È lo stesso Pasolini a raccontarlo in varie interviste: si intuisce benissimo che lui per primo subiva la figura del padre, che viveva la vita di famiglia col senso del sacrificio di un emarginato, a causa dell’amore tormentoso ed esclusivo che legava il figlio alla madre. Io, sua madre, l’ho conosciuta bene: affascinante, con una congenita grazia e dolcezza che emanavano poesia. Viveva per questo unico figlio come se la cosa rappresentasse una rara fortuna; ma in fondo aveva ragione, perché nessuno può negare che Pier Paolo è stato un uomo grande. Fu Pier Paolo a parlare alla Morante della mia poesia. Come è noto, il nostro fu un rapporto sì intenso, ma decisamente conflittuale. Elsa, il grande amore mio, aveva un debole per i poeti. Poi io e lei bisticciammo. La verità è che ho iniziato a scontrarmici perché era gelosa e invidiosa del mio legame con Pasolini; non digeriva il fatto che avessi quel ruolo precario di segretario per Pier Paolo; voleva che trovassi un impiego stabile, mi ripeteva sempre che dovevo interpellare Alberto. Oh Alberto!, un uomo simpatico. Figurati, a me sembrava già tanto aver ottenuto la sua amicizia. Non mi ha mai risolto nessun problema pratico. Averlo avuto accanto per tanto tempo è stato di per sé un dono; non mi importa se non si è mai preoccupato di intercedere per un mio libro alla Bompiani”. E ancora, su Pasolini e Roma: Credo che Pier Paolo non capisse granché di Roma. In fondo non era la sua città, ed egli era rimasto un provinciale. La sua era pura proiezione: proiettava non conoscendo bene sé stesso, o meglio, il suo odio per sé stesso. Non si accettava come omosessuale; la sua protesta su Roma era determinata dal fatto che non si appagava più sessualmente. Va anche ricordato che erano cambiati i luoghi di aggregazione omosessuale notturna, come quello del Colosseo, centro della vita sociale frocia della capitale, del resto vissuta in modo nascosto, latente, quasi alla maniera dei primi martiri rifugiati nelle catacombe. Una Roma della fine degli anni Sessanta, che vuole cancellare i ‘luoghi’ del peccato, dove in incontri facili si consuma un sesso veloce. La polizia non dà tregua, tende a essere intollerante eccetto che per alcuni locali notturni, che diventano così il nuovo punto di riferimento per gli omosessuali. Naturalmente, lì i clienti possono essere controllati, schedati senza difficoltà. Roma, in altri termini, cessa di essere libera e pagana, e la vita omosessuale viene a rinchiudersi in un perimetro circoscritto, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, una specie di ghetto dall’aria greve e plumbea. Non è poi da sottovalutare che Pasolini spese la sua giovinezza in quelle borgate dove dovette abitare appena giunse a Roma con sua madre. Un rimprovero a sé stesso, il suo, divenuto con lo scorrere degli anni un vero giudizio negativo sul mondo intero. La sua Roma, quella Roma amata cantata dal Belli, quella del primo dopoguerra e l’altra, considerata da Federico Fellini con le sue riprese, un reale ombelico del mondo, non esisteva più. Ecco la motivazione cruda della sua disapprovazione e della nostalgia di un tempo scomparso: un rimpianto che Pasolini descrisse molto bene già nel 1973 recensendo ‘Un po’ di febbre’ del suo amato Penna. La mia protesta è invece assoluta, è una protesta contro la vita che ci tocca di vivere, perché sono convinto che oggi si viva male ovunque”.
Alla mia domanda ‘perché riveli che non si appagava più sessualmente’?, Dario rispose: “È lui stesso ad affermarlo con i suoi versi ‘Amo i corpi senza anima’. Ma lo conferma anche la testimonianza di Petrolio con certe forme di sessualità estremamente trasgressive: il bisogno di accoppiarsi con decine di ragazzi insieme, spompinandoli avidamente, senza sosta. Del resto quando Einaudi pubblicò nel 1992 ‘Petrolio’, lo scandalo fu proprio causato dalla particolareggiata descrizione di amplessi omosessuali. I critici che se ne sono occupati quando finalmente è stato edito hanno commentato che si trattava di un progetto ambizioso con cui Pasolini avrebbe di certo trionfato su tutti i suoi denigratori, perché finalmente aveva scritto un romanzo ‘vero’. Anche in Petrolio l’inappagamento intrama tutte le esperienze sessuali che vi sono descritte, e l’autore riesce a dissimularlo solo intessendo la trama ulteriore dell’inganno con cui raggira sé stesso. Come ho già avuto modo di scrivere recentemente, a Pasolini, amando il rischio e il pericolo, non restava che ricorrere all’espediente di ingannare sé stesso. Ma si tratta di inganni consumati rapidamente, che egli viveva con senso di colpa, proprio da cattolico prima che marxista: in essi rapiva dei corpi la loro materialità, quasi fossero involucri senz’anima. Però io non l’ho mai percepito come un uomo disumano o spietato, come ti ho già detto altre volte. Pier Paolo per me ha un’umanità imperitura, pur piegata dolorosamente sulla sua mortalità e sulla paura della fine. La sua morte, d’altro canto, è avvenuta in coerenza suprema con la sua vita. Non ha vissuto davvero né la sua morte né la sua vita: si ritraeva nella recita forsennata della sua vita, che diventava così una finta vita, una non vita. È il motivo per cui mostrava di prediligere chiunque recitasse a oltranza una parte, perfetta o imperfetta che fosse, della propria esistenza, me compreso. E intendiamoci bene: si recitava a volto scoperto, innanzi a lui, che aveva dato allo scandalo la perfezione sacrilega della provocazione e della consunzione. Nessuno riusciva a rappresentare, su questo palcoscenico, ciò che lui pretendeva, la finzione sublime che maschera la verità. Ma di solito accettava il compromesso con una quotidianità inferiore alle sue aspirazioni, ai bisogni intimi del suo intelletto e del suo cuore: era la quotidianità della quale non gli apparivano alternative… Era un uomo che non possedeva l’ambiguità delle mille facce: aveva solo la sua, straordinariamente inconfondibile, ossuta, dagli zigomi da barbaro e con le labbra indurite dall’amarezza. Una faccia indimenticabile, quella di un uomo che ha saputo far trionfare, con successo, un certo modo di essere omosessuale. Però su di lui, che altro dire? Non ti nascondo che anche in questo momento, con te, faccio fatica a parlarne: inutile negarlo, ho un coinvolgimento emotivo, e se scrivendo su di lui riesco a essere più obbiettivo, nel ricordarlo no, non è semplice, perché capisci, io lo ‘vedo’ come vedo te adesso; non soltanto per la ragione che la sua opera è tutt’uno con la sua persona, con la sua vita, ma perché l’amicizia che mi ha legato a lui gli ultimi dieci anni della sua vita mi ha reso chiaro che di lui va accettato tutto, quello che ha fatto e quello che ha gettato via, nella vita come nell’arte. Ed è proprio per questo mio modo di rapportarmi alla sua figura che all’epoca della morte, per certe mie rivelazioni, fui accusato da parecchi di essermi comportato come una ‘vipera’, per aver detto e scritto cose che, a loro avviso, non gli rendevano onore. Ma una cosa va detta e ribadita con forza: Pier Paolo non concepiva che le critiche che gli si potessero rivolgere non muovessero innanzitutto dalle sue opere, che è esattamente il mio punto di partenza nel mio ‘Morte di Pasolini’. Mi sembra di averti già accennato che sto terminando un nuovo libro su di lui; e lì vi troverà posto tutta la mia verità su di lui, una verità onesta, che non è né ingratitudine, né critica moralistica, ma esaltazione di un uomo-martire ammazzato al pari di un cane bastardo su una spiaggia deserta. Sarà un libro memoriale su di lui, sui suoi amori e, soprattutto, sulla sua morte”. Si spera solo che con l’uscita del documentario “Bellezza, Addio” di Palmese e Giardina, l’interesse editoriale verso un notevole lirico del Novecento si riaccenda e possano essere così ristampati alcuni dei testi basilari che furono anche per gli scrittori che vennero dopo (si legga “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli tanto per fare un esempio ordinario) testi di riferimento sostanziale, e non solo per il tema della diversità sessuale in essi presentato.