di Maria Rosaria Sforza
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Luca è un uomo di buona cultura. Riflessivo. Attento. Lesto nello stigmatizzare ogni caduta di stile. A partire dalle sue. Soprattutto, conosce il significato della solidarietà concreta e silenziosa. Checco non è affatto il suo alter ego, come piace affermare a quelli abituati ai modi di dire ad effetto: più semplicemente è il personaggio partorito dalla sua fervida fantasia. E basta. Com’è giusto che sia quando, per mestiere, si sceglie di comunicare con il mondo. È un artista che sta crescendo: con la lentezza dovuta e in maniera inesorabile.
Dunque Checco: Luca Medici come esce dall’imbarazzo degli incontri casuali con i fan?
Qualche battuta ce l’ho sempre pronta. Quando, ad esempio, affermano di aver visto almeno una decina di volte ogni mio film, domando se almeno nel corso di una, di quelle innumerevoli volte, abbiano recepito il messaggio.
E però…
Una cosa che mi fa rabbrividire, e che a parere mio non dovrebbe esistere, sono gli smartphone con le telecamere. Quella è la mia vera disperazione. Mi chiedono di fare un video per la cugina che si laurea… Cosa dico? Che avrà pure studiato molto, ma che, con tutto il rispetto dovuto, non riuscirà mai a trovare un lavoro? E comunque, tutti siano avvisati: se sto andando a pagare le bollette e qualcuno mi ferma per fare un video, al limite lo giro pure, ma sulla mia faccia compariranno soltanto contenuti altamente drammatici.
Questo è il “dramma” che vive Luca più volte al giorno: Checco, invece, quando ha capito di essere un portatore sano di comicità?
Durante il quinquennio delle scuole superiori. Ogni giorno percorrevo in treno i trenta chilometri che mi separavano dalla scuola, e nei vagoni facevo le mie prime esperienze come artista comico. Devo riconoscere che ogni mattina le mie performance erano particolarmente attese. E che il vagone dove viaggiavo io era sempre sold out.
Il debutto “vero” in società, a quando risale?
Devo dire grazie a “Zelig”: mi ha regalato la notorietà e la possibilità di arrivare, di seguito, al grande schermo.
Quali strategie adopera per trasformare i temi di attualità in notizie comiche?
Non è poi così difficile. In fondo anche le vicende più drammatiche nascondono un lato molto ridicolo: il mio mestiere è andare a caccia di quello. Non è per niente semplice, invece, evitare di sfociare nell’irriverenza e nell’irrisione. Spero, e credo, di non oltrepassare mai la soglia del buon gusto: di non inciampare nell’offesa gratuita. In questo senso metto molta attenzione sin dalla prima stesura di ciascuna sceneggiatura.
Mi viene alla mente il film “Quo Vado” che lei ha girato nell’estremo Nord, esattamente in Norvegia. Com’è stato lavorare in un Paese così diverso dal nostro?
Come fare un bagno di umiltà, perché non ci filava nessuno. Un fatto che insegna quanto resta sempre piccolo il proprio mondo. Quanto al resto, la natura di un nordico è come il loro clima: gelida. Sono totalmente indifferenti alla vista della macchina da presa. Per chi fa il mio lavoro, è un grande aiuto. Non ci sono persone che osservano con insistenza, fatto che ti imbarazza e ti costringe a rigirare più volte la stessa scena. Conoscono solo il rigore e l’efficienza: due doti che proprio in quel film ho preso un po’ in giro.
Vabbè: è andato tutto alla grande, allora…
Proprio tutto no. Ci sono stati anche lati molto negativi, come la pioggia che ci ha torturato. Bergen, la città dove abbiamo girato, in Europa è prima in classifica per quantità di precipitazioni. In 45 giorni di riprese abbiamo avuto 7 ore di sole: sono dovute bastare per realizzare tutte le scene.
Altri aneddoti?
Tranne il fatto che mi sarebbe piaciuto incontrare un orso polare vero, e non quello ammaestrato usato per il film, c’è un episodio che mi ha stupito e divertito. Per girare una scena sono stato costretto a stare fermo dentro un’auto, al centro della strada. Si è creata una fila lunga quattro chilometri. Nei 15 minuti in cui il traffico è rimasto totalmente paralizzato, nessuno ha strombazzato con il clacson: e non è piovuto un solo un insulto, sia pure in norvegese.
Torniamo a Checco: cosa lo distingue dagli altri comici?
Intanto il fatto che mi tengo lontano dalle scene: non accetto di girare spot pubblicitari, se non quelli per beneficenza, non amo apparire e, per conseguenza, non partecipo ai talk show, dove si discute su argomenti che non mi competono affatto.
Talento e fortuna: in quale percentuale hanno avuto un ruolo nella sua carriera?
Talento: ottanta per cento. Il rimanente è fortuna.
Ohilà…
(Ride) Vabbè: per l’ottanta per cento è stata fortuna.
Crede di parlare a un pubblico trasversale?
Quelli che storcono sempre il naso sono i commentatori seriali. Sono quelli che scrivono post e commenti utilizzando i blog degli altri. La mattina si alzano, si piazzano davanti al PC e iniziano a scrivere. Secondo me bisognerebbe proibire le loro esistenze.
Facciamo chiudere l’intervista a Luca: com’è nella vita privata?
Dedito all’ozio.
Mi pungono solo le critiche di chi stimo
Non v’è successo senza spine. Anzi: tanto il riscontro del pubblico si fa evidente, quanto più, e in maniera direttamente proporzionale, nei cosiddetti addetti ai lavori cresce la smania di sminuire. Criticando con malevolenza. «Mi deprimono quando devo ammetterne l’evidenza. Molti affermano che dico troppe parolacce. È la verità, ma mi sto curando. Comunque mi dispiaccio quando leggo recensioni negative firmate dai critici che stimo».
REWIND 2016_2023 PUBBLICATO SU ROMANOTTE NEL 2020