Vittorio Sgarbi firma per noi. Il male sembrava prevalere, ma i giovani di Salemi hanno vinto contro la mafia

di Vittorio Sgarbi

Il Museo della Follia è una sfida. Una sfida dei giovani contro i vecchi. Del bene contro il male. Era stato concepito a Salemi dopo il Museo della Mafia oggi rimasto ostaggio della mafia. Avrebbe dovuto arricchire quella città, con le iniziative nate in occasione del 150° dell’Unità d’Italia di cui Salemi fu la prima capitale. Capitale di un sogno. Ma non è stato possibile realizzare quel sogno. Le forze del male hanno prevalso. E la mafia, uscita dal museo, ha vinto. Ancora una volta la sua impresa è riuscita. Questa volta in modo beffardo. Non sostituendosi allo Stato. Ma sostituita dallo Stato.  Dopo quell’impresa, i giovani che con Cesare Inzerillo avevano lavorato al Museo della Mafia, hanno trovato ospitalità prima a Matera, realizzando il Museo della Follia negli spazi meravigliosi del Convicinio Sant’Antonio, poi a Mantova, presso Palazzo della Ragione, dove il museo si è ampliato con le opere di Ligabue. Erano particolarmente motivati avendo potuto misurare, nell’esperienza di Salemi, la follia degli uomini, la prepotenza dello Stato, il rovesciamento di ogni regola, l’ansia di giustizia, il desiderio di ogni giovane di migliorare il mondo. Si erano scontrati con una realtà brutale, mascherata con la retorica della legalità e con l’unico obiettivo di mortificare, umiliare, punire la libertà e la fantasia. Erano dunque predisposti a cercare liberazione e comprensione nella follia degli artisti in un luogo di miseria, che con il tempo si è trasformato nella capitale europea della cultura. La fuga a Matera è stata la prima risposta alla violenza subita. Volevano occupare anche la follia. Ma la follia non si lascia occupare, non accetta regole e commissariamenti. L’esperienza fu singolare e formativa dando sostanza a quello che per molti è soltanto conoscenza letteraria. Essi hanno vissuto ciò che fa dire Alessandro Manzoni ad Adelchi: «…ad innocente opra non v’è: non resta che far torto, o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto: la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e ormai la terra altra messe non dà…». Con questo stesso metodo, in fondo, nacquero i manicomi, non per isolare i pazzi dai sani, e tantomeno per curare i malati, ma per piegare gli irriducibili, per impedire ai diversi di essere diversi, per non consentire che qualcuno si muovesse fuori dalle regole stabilite dall’ordine costituito. «Una feroce forza il mondo possiede…». È per questo, per quanto di anomalo, di originale, di creativo, d’individuale l’arte rappresenta, che si è sempre evidenziato e analizzato il nesso tra arte e follia. Da Pontormo a Van Gogh, gli artisti più grandi hanno avuto rapporti difficili con la società, accentuando il loro individualismo. In questi percorsi sarebbe stato impensabile immaginare un rapporto tra mafia e follia, se il potere non avesse manifestato il suo volto attraverso la diabolica invenzione della mafia, non quella reale ma quella immaginata, sospettata, inventata, per consolidare le sue forme attraverso l’affermazione di uomini meschini e vili. I primi a non crederci e a subire una ingiustizia e a patire una violenza, misurata per la prima volta negli anni dello studio e delle illusioni, sono stati i giovani che hanno lavorato con me, pieni di vita e di entusiasmo, a Salemi. Non hanno mai né visto né temuto la mafia; hanno visto e temuto il volto dello Stato, in una burocrazia locale e stupida che si è riprodotta in quella istituzionale, che finge di difendere i cittadini da una criminalità organizzata che non c’è più o che non è più lì. Un comodo alibi per limitare l’affermazione di tutto quello che non rientri negli schemi dei modesti e dei meschini che hanno, senza intelligenza e fantasia, costruito la loro piccola fortuna, non vergognandosi di approfittare delle vittime e dei morti. Io non avrei potuto e non potrei vivere di quella rendita e ho iniziato a cercare persone vive, e soprattutto giovani con ideali e desideri e poco inclini a facili retoriche. A poca distanza da Salemi ho incrociato Cesare Inzerillo. Che ritengo, non meno di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino, un dono della Sicilia all’Italia e il cui solo impegno basta a spingere nell’angolo la mafia e lo Stato che la garantisce dandole certificati di esistenza. Ma perché non si pensi che io magnifico un vero artista per una illusione ottica o per una deformazione, voglio che gli italiani ritrovino qui le parole di un osservatore laico, severo e non condizionato nella sua interpretazione dei fatti né da pregiudizi né da concezioni: Gian Antonio Stella. Stella venne in una Salemi, secondo il Prefetto di Trapani, condizionata dalla mafia (non si capisce quale e con quali rappresentanti), nell’imminenza della vista del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per celebrare il 150° della Unità di Italia. Venne, vide, scrisse. Non aveva ragione di fare sconti né di essere indulgente con me, da giornalista riconosciuto per l’impegno e la verità delle sue inchieste.

Ecco le osservazioni di Stella, in loco (con le integrazioni, per cartas, di Sergio Rizzo):

«[…] Su tutto, però, svetta un museo che la Sicilia e l’Italia intera non hanno mai avuto e che non piacerà non solo ai mammasantissima ma neppure, viste le ultime battute su «Gomorra», a Silvio Berlusconi: il Museo della mafia. L’hanno voluto Sgarbi e Toscani, l’hanno costruito i ragazzi del «gruppo terremoto», l’ha ideato nella struttura Cesare Inzerillo, un giovane artista palermitano. Niente coppole, lupare, oggetti simbolici che poi ammuffiscono sotto la polvere. Ma un percorso multimediale. Nere le pareti, neri i pavimenti, nera l’atmosfera. Dentro, dieci cabine elettorali ognuna delle quali «arredata» per un tema: la violenza, la Chiesa, la famiglia, il potere, il carcere, l’informazione, la sanità… Pochi mezzi, pochi soldi (63.000 euro in totale, tutto compreso: un terzo di quello che costerà la «La Regata dei Mille» della vicina Marsala, che ha tappezzato i muri di manifesti accorgendosi troppo tardi che il lungomare era quello di Trapani!) ma in compenso tante idee. Sviluppate soprattutto attraverso i video. Intriganti. Affascinanti. Agghiaccianti. Da non perdere la strepitosa ricostruzione della storia della mafia attraverso le prime pagine dell’ultimo secolo, dall’uccisione di Petrosino all’arrivo del prefetto Mori, dal delitto Notarbartolo al sacco di Palermo, dalla morte di Salvatore Giuliano alla strage di Capaci. Undici sale complessive ricche di storia, dolore, orrore. Come quella dedicata a «Palermo felicissima» dove, dopo un amaro raffronto tra quella che era la bella città d’un tempo e la devastazione palazzinara, Inzerillo ha riprodotto un vero e proprio abuso edilizio, che culmina nella mummia di un morto ammazzato dalla mafia e cementata in un pilone. Non farà buona pubblicità all’Italia? Può darsi. Ma la mafia, al di là delle chiacchiere, si sfida anche così […] 

Non ce n’è una, nella selva di immense pale eoliche stagliate nel cielo della stupenda valle di Mazara, che accenni a muoversi sotto un refolo di vento. Non una. “Mai: non si muovono mai”, maledice Vittorio Sgarbi, che il bidone dell’eolico in Sicilia lo ha denunciato da un pezzo, “Peggio: se anche si muovessero e producessero energia, quelli di Terna, che gestiscono la rete, hanno detto che non sarebbero in grado di prenderla e redistribuirla”. Eppure, per tirar su questi bestioni giganteschi, hanno sventrato i fianchi delle colline, devastato i crinali, annientato ettari ed ettari di vigne in tutta la valle, tutto il Belice, tutta la Sicilia. Anche quando si tratta di terre incantate, punteggiate qua e là da antichi bagli di pietra tra vigne dal fascino struggente, come la Val di Mazara. Che il grande storico dell’arte Cesare Brandi definì «la più bella strada del mondo». 

(Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella. “La grande truffa siciliana dell’eolico senza vento” “Corriere della Sera”, 8 maggio 2010).

In questo documentato resoconto, il lettore avrà avvertito l’entusiasmo spontaneo e genuino di Stella per Cesare Inzerillo. Non lo conosceva prima e ne ammirò incondizionata- mente la complessa e documentatissima elaborazione del Museo della Mafia.

Rewind 2016_2023. Articolo Pubblicato su Il Mediterraneo nel 2017