C’è un buco nero intorno ai fatti oscuri che caratterizzarono l’ultimo periodo di vita di Giacomo Leopardi. La conversione inaspettata, la morte del 14 giugno 1837 per malattia, la dubbia sepoltura. Su questi avvenimenti sono state avanzate diverse tesi, tutte scarsamente suffragate, e neanche l’amico Antonio Ranieri – presso il quale fu ospite a Napoli nell’ultima fase della sua esistenza – ha lasciato una documentazione lineare e coerente. Ne deriva che molti continuano a difendere l’ateismo di Leopardi e la sepoltura “esemplare” nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Nel luglio del 1900, però, si scoprì che nella bara non vi è alcun corpo. Qualche frammento di ossa andò al Museo di San Martino, in un’urna peraltro anch’essa scomparsa, mentre alcune reliquie furono acquistate successivamente da Beniamino Gigli, per affidarle al comune di Recanati ove il poeta era nato. La tomba ‘nominale’ venne trasferita così nel 1939 al Parco Virgiliano di Napoli, ubicata non molto lontano da quella di Virgilio.
In verità, ai tempi del decesso di Leopardi, a Napoli imperversava il colera: chi ne periva veniva sepolto nella fossa dei colerosi, come attesta il libro dei defunti della parrocchia in cui venne registrato anche il decesso del poeta. Dunque, con ogni probabilità, il male che colpì Giacomo Leopardi fu proprio il colera. Del resto molto si è detto su una sua presunta malattia viscerale, provocata da un’indigestione di confetti. Ma se il certificato medico ufficiale parla di idropericardia, v’è da chiedersi per quale motivo sia stato inserito nel registro dei colerosi. Il corpo fu trasportato agli Incurabili. A seguire avrebbero dovuto trasferirlo nel Cimitero delle 366 Fosse: un luogo di miseria, realizzato per dare degna sepoltura ai deceduti per malattie infettive, senza identità. Si tratta, com’è logico, di una poderosa falla nella narrazione: la notorietà di Leopardi avrebbe impedito di concepire una sua sepoltura tra i figli di nessuno.
Qui, infatti, entra in scena Ranieri. La cui amicizia aveva per il poeta un valore indiscutibile: Antonio Ranieri era di origini nobili e fu esiliato in Francia, Inghilterra e in Toscana per le sue idee liberali. Fu deputato e senatore, docente all’Università di Napoli e scrittore. I due erano inseparabili, e a partire dall’Ottobre del 1833 vissero insieme a Napoli. Nel libro del 1880 “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, Ranieri descrive gli sforzi, le spese e i dolori che insieme alla sorella Paolina, anch’ella morta da poco, avevano patito per assistere il “burberico” Leopardi. L’amico gli stette accanto fino alla fine, spendendosi anche affinché l’editore non tradisse le sue ultime volontà. Pare, infatti, che Leopardi si fosse convertito alla religione cattolica e avesse ricevuto gli Ultimi Sacramenti da un sacerdote gesuita, il quale ne riferisce anche in una lettera. A sostegno della tesi v’è la testimonianza del registro dei morti della Parrocchia SS. Annunziata, dove si legge: “Nel giorno 15 giugno 1837 è stato sepolto nel cimitero dei colerosi “D. Giacomo Leopardi, Conte, figlio di D. Monaldo, e Adelaide Andici, di anni 38 munito de’ SS. Sag.ti, morto a 14 d(icembre), dom(cilia)to Vico Pero N.2”.
Ciò assodato, dove è finito veramente il corpo del poeta deceduto di colera? Il mistero s’infittisce. Le cronache raccontano che gli appartenenti alle famiglie potenti si rivolgevano a loschi individui travestiti da benefattori. In realtà si trattava di intrallazzatori, che per ingenti somme di denaro provvedevano a riporre i resti dell’estinto in due posti ove sacralità e degno riposo erano assicurati: il Cimitero delle Fontanelle o le Catacombe di San Gennaro. E il Ranieri aveva la nobiltà e l’influenza politica per arrivare a tanto. A suffragare l’ipotesi ci sono i recenti esami al carbonio effettuati sulle ossa sepolte nei due luoghi di culto, che stabiliscono come i reperti non appartengono tutti all’epoca delle persecuzioni cristiane: ce ne sono alcuni recentissimi, (probabilmente relativi ad alcune esecuzioni malavitose avvenute nel 900) e altri dell’800. Fra questi, con ogni probabilità, riposano le ossa del poeta.
Negli anni a seguire, com’è naturale, molto si è indagato e si è scritto sugli accadimenti. La studiosa veneta Loretta Marcon ha definito la morte di Giacomo Leopardi «un giallo a Napoli». La sua collezione di tracce dimostra comunque l’impossibilità di comporre un mosaico credibile, causa l’assenza di vari elementi. Si afferma, ad esempio, che il poeta non amasse Napoli. Per contro il poeta se ne innamorò, sebbene tardivamente, apprezzandone frutti e personaggi nella casa che condivideva con Antonio Ranieri in Vico Pero alla Stella.
Leopardi amava Napoli Si è molto scritto sul presunto disamore di Leopardi per Napoli. Gli scritti dell’amico capovolgono la tesi. In realtà giocò a sfavore la profonda depressione che lo colse prima dell’arrivo in città. La malattia gli fece condurre una vita molto riservata. Ma fu proprio la vivacità partenopea a far da rifugio per i suoi mali. Quando tornò alla vita mostrò di apprezzare la vicinanza degli amici di Antonio Ranieri, ma anche la bellezza e la salubrità delle passeggiate accanto al mare.
Probabilmente il corpo fu sezionato agli Incurabili
Probabile che i resti di Giacomo Leopardi furono ricomposti al Cimitero delle Fontanelle soltanto dopo che il suo corpo era stato sezionato e studiato. Ranieri, come lo stesso Leopardi, coltivava l’interesse per la medicina. Si può immaginare che, su stessa richiesta dell’amico morente, né portò il corpo all’Ospedale degli Incurabili, presso il quale venivano sezionati i cadaveri. Leopardi potrebbe essere stato analizzato per carpire i segreti della sua incredibile mente.