Zucchero scrive per noi. Delle mode me ne frego: sono anarchico come un gatto

Rewind 2016_2023 Articolo pubblicato su Napolinotte nel 2016
di Zucchero Sugar Fornaciari

Non è facile descrivere le proprie canzoni tramite i testi, perché ogni testo può avere tante chiavi di lettura. Sarebbe bello che ognuno li leggesse dandogli un proprio significato, che si facesse il suo video mentale. Il rischio è incanalare l’ascoltatore in una visione di una cosa che è solo mia. Invece il bello delle canzoni è far sognare le persone, lasciando che ognuno si faccia il suo soggetto, il suo video, la sua storia, il suo film. 

Le canzoni dovrebbero raccontarsi da sole. Quando ho scelto il titolo “Black Cat” non ho pensato al gatto nero che attraversa la strada, questo è ovvio. Per gli afroamericani il gatto nero è indice di buon auspicio, contrariamente a noi. Loro si salutano dicendo: «Hey cat! How are you?»: è un saluto amichevole. Ho deciso di dare questo nome al disco perché, più degli altri, è un album nero, con radici nella musica afroamericana. È un album libero, libero come il gatto. Il gatto è selvatico e anarchico, proprio come questo album. I suoni sono ruvidi, marci, ma è anche un po’ anarchico, perché il gatto non è domestico come il cane.

La prima pagina di Napolinotte con in apertura l’articolo a firma Zucchero

Quando mi sono messo a scrivere ho pensato di voler essere più libero. Mi sono ricordato di “Oro Incenso & Birra”. A quei tempi non mi interessava quanto l’album potesse piacere, ero più libero perché avevo meno da perdere. In quel periodo ero capace di alzarmi alle 4 di mattina con una frase in testa, andavo in studio e, su quella frase, con una chitarra e un pianoforte, buttavo giù quello che il momento mi suggeriva in modo istintivo, meno pensato. Con “Black Cat”, volevo tornare a quello stato d’animo, fregandomene della musica che si sente in giro e muovendomi in modo più anarchico. Ho buttato giù una quarantina di canzoni, per poi sceglierne 12.

A dimostrazione del fatto che non volevo necessariamente seguire mode o suoni, ho deciso di coinvolgere tre produttori diversi. Volevo che alcuni brani fossero vestiti con un certo suono e altri con un altro. Ci siamo divertiti molto, anche perché i musicisti, soprattutto quelli con cui ho lavorato a Nashville, lavorano come negli anni 70, ascoltando il provino 3 – 4 volte e operando sul brano come ci sente di fare sul momento. I musicisti che hanno suonato nel disco sono i numeri uno del panorama musicale americano nel loro specifico strumento, sanno cosa fare nel momento giusto, colgono il momento e sanno sfruttare i silenzi. È un disco organico, con pochissimo uso di computer e drum machines. È registrato su pro tools, ma riportato tutto su nastro analogico, per dargli un calore diverso. È stato un lavoro lungo: c’è voluto un anno per scrivere i brani, e poi ho viaggiato tra Los Angeles, New Orleans, Nashville, Memphis per cercare i produttori e i musicisti giusti per ognuna delle tracce. Sono soddisfatto, era quello che avevo in testa. Non è facile rinnovarsi, rinnovare la mia musica che, tra gli altri, attinge dal blues e dall’afroamericana, senza ricorrere a sintetizzatori o ad altre strade più moderne. È un disco pieno di vibrazioni e suoni, secondo me anche abbastanza inaspettato.