Le canzoni dovrebbero raccontarsi da sole. Quando ho scelto il titolo “Black Cat” non ho pensato al gatto nero che attraversa la strada, questo è ovvio. Per gli afroamericani il gatto nero è indice di buon auspicio, contrariamente a noi. Loro si salutano dicendo: «Hey cat! How are you?»: è un saluto amichevole. Ho deciso di dare questo nome al disco perché, più degli altri, è un album nero, con radici nella musica afroamericana. È un album libero, libero come il gatto. Il gatto è selvatico e anarchico, proprio come questo album. I suoni sono ruvidi, marci, ma è anche un po’ anarchico, perché il gatto non è domestico come il cane.
Quando mi sono messo a scrivere ho pensato di voler essere più libero. Mi sono ricordato di “Oro Incenso & Birra”. A quei tempi non mi interessava quanto l’album potesse piacere, ero più libero perché avevo meno da perdere. In quel periodo ero capace di alzarmi alle 4 di mattina con una frase in testa, andavo in studio e, su quella frase, con una chitarra e un pianoforte, buttavo giù quello che il momento mi suggeriva in modo istintivo, meno pensato. Con “Black Cat”, volevo tornare a quello stato d’animo, fregandomene della musica che si sente in giro e muovendomi in modo più anarchico. Ho buttato giù una quarantina di canzoni, per poi sceglierne 12.
A dimostrazione del fatto che non volevo necessariamente seguire mode o suoni, ho deciso di coinvolgere tre produttori diversi. Volevo che alcuni brani fossero vestiti con un certo suono e altri con un altro. Ci siamo divertiti molto, anche perché i musicisti, soprattutto quelli con cui ho lavorato a Nashville, lavorano come negli anni 70, ascoltando il provino 3 – 4 volte e operando sul brano come ci sente di fare sul momento. I musicisti che hanno suonato nel disco sono i numeri uno del panorama musicale americano nel loro specifico strumento, sanno cosa fare nel momento giusto, colgono il momento e sanno sfruttare i silenzi. È un disco organico, con pochissimo uso di computer e drum machines. È registrato su pro tools, ma riportato tutto su nastro analogico, per dargli un calore diverso. È stato un lavoro lungo: c’è voluto un anno per scrivere i brani, e poi ho viaggiato tra Los Angeles, New Orleans, Nashville, Memphis per cercare i produttori e i musicisti giusti per ognuna delle tracce. Sono soddisfatto, era quello che avevo in testa. Non è facile rinnovarsi, rinnovare la mia musica che, tra gli altri, attinge dal blues e dall’afroamericana, senza ricorrere a sintetizzatori o ad altre strade più moderne. È un disco pieno di vibrazioni e suoni, secondo me anche abbastanza inaspettato.